1 maggio. Non serve dire l’anno. Basta il giorno. È così che inizia ogni silenzio per chi ama la Formula 1. Non dura un minuto ma dura anni. Il 31esimo, questo. Il ricordo di un weekend in cui il mondo, scosso da qualche anno prima, ha ricominciato a patire la realtà, già così chiara agli occhi: le divinità cadono. Furono i giorni in cui Senna lasciò la pista di Imola spirando in una curva, portandosi dietro l’ombra meschina della morte di Roland Ratzenberger, resa superficiale dalla voglia di guadagno e dalla mancanza di empatia.
Imola 1994 non fu solo un Gran Premio, fu uno spartiacque. Uno schiaffo alla spensieratezza, l’ennesimo di uno sport senza paracadute, la fine di un’era, l’inizio della consapevolezza. Il così definito weekend in cui questo sport cambiò per davvero. E tutto ciò che pensava la gente. Una tragedia, e per ogni tragedia c’è una prima volta. Un insieme di avvenimenti che avrebbero dovuto frenare questo sport, ma hanno lasciato che l’arroganza, la fame, avessero il sopravvento, nonostante le cattive sensazioni. In quei giorni di cui rimane la memoria, che oggi si onora non soltanto con le emozioni, ma anche con i dettagli, cosa successe?
Il venerdì: la macchina che balla e il presagio che qualcosa non va
La stagione 1994 era cominciata con un cambio epocale: niente più controlli elettronici. E la FW16 di Senna era una macchina instabile, nervosa, difficile da domare. Le soluzioni tecniche di Newey, pur rientrando nei margini concessi dalla FIA, sembravano più esperimenti tollerati che reali certezze. Errori di poco conto, forse, ma abbastanza da sollevare inquietudine. Hill lo percepiva. Ayrton lo sentiva nelle ossa.
In Brasile era partito in pole, ma non aveva visto la bandiera a scacchi. In Giappone, neanche. A Imola, Ayrton aveva ormai una certezza: con quella vettura non ce l’avrebbe fatta. Non così. La macchina non si teneva. Hill lo diceva. Ayrton lo ripeteva. E nel paddock l’aria era densa, pesante, quasi intossicata. Si parlava poco, si sentiva tutto. Quel 29 aprile persino la frenesia della Williams sembrava senza una direzione. Cos’era? Consapevolezza? Paura? O troppa sicurezza? Lui aveva la faccia di chi sa, un’espressione tesa, cupa. Perché il Gran Premio di San Marino del 1994 non era una gara da correre. Era un evento da lasciarsi alle spalle, come una giornata no. Una pagina da girare in fretta. Ma nessuno sapeva che stava per diventare una delle giornate più nere della storia di questa categoria.
Senna lo aveva detto. Aveva parlato chiaro ai vertici FIA. Aveva discusso con Gerhard Berger e altri colleghi: la sicurezza andava rivista, e in fretta. Nessuno lo ascoltò davvero. E la prima scossa, la più chiara, arrivò con Rubens Barrichello. Alla Variante Bassa, volò con la sua Jordan: 225 km/h, un volo, un cappottamento, la rete metallica, poi il silenzio. Braccio e naso rotti, contusioni. Ma vivo. Vivo davvero. E Ayrton pianse. Quelle lacrime avevano un senso profondo. Un significato che andava oltre l’amicizia. Un presagio.

Il sabato: Ratzenberger, l’urlo che non si dimentica
Ore 13.15. Ratzenberger perde il controllo della sua Simtek alla curva Villeneuve, dopo un’uscita ad altissima velocità dal Tamburello. Il frontale si disintegra contro il muro in cemento. L’impatto è devastante. 300 km/h senza margine di dubbio. Il secondo silenzio del weekend cala. E non si alzerà per ore. L’elicottero è rapido, le facce fanno presto a spegnersi. Si aspetta la notizia ufficiale che già cicatrizza. Senna è a bordo pista. Guarda il monitor, fisso. Non si muove, ha le mani giunte. Poi parte. Vuole andare. Vuole vedere. Correre in circuito, verificare con i suoi occhi. Lui che già portava sulle spalle la tensione di tutto quel weekend, ora ha una certezza in più: non è più solo un brutto presentimento.
Ore 14:00. L’austriaco non ce l’ha fatta. 33 anni. Era alla sua seconda gara in carriera. Per qualcuno era solo un comprimario, per Ayrton era un collega. Un ragazzo che voleva fare questo mestiere e che era morto a bordo di una macchina senza protezione. “Uno che cercava di vivere il suo sogno”, dirà poi. Nel box della Williams la frenesia diventa gelo. Senna dice a chi lo incrocia che “non ha più senso correre così”. Sottovoce confida agli ingegneri di voler parlare con Ecclestone, di voler fare qualcosa. “Non possiamo aspettare che succeda ancora”. Vuole fondare un’associazione dei piloti, come ai tempi di Lauda, come ai tempi di chi non voleva morire. Una serie di decisioni che sembrano già troppo in ritardo. Siamo ancora al sabato. Il peggio, assurdo a dirsi, deve ancora venire.
Ore 20:00. Ayrton cena da solo. La giornata è lunga, troppo lunga e non ha più voglia di parlare. Chi lo incrocia lo descrive come immerso nei pensieri. Quella sera avrebbe potuto chiamare i suoi, vedere amici, cercare distrazione. Non lo fa. A chi si avvicina fa “no” con la testa. Quella sera, per chi lo vede da vicino, qualcosa era già cambiato: Ayrton non era più Ayrton. Non in quel momento.

La Domenica: quel giorno in cui il tempo si è fermato
Ore 14:00. Parte il GP di San Marino. È il 1 maggio 1994. Il sole è alto, il pubblico è in piedi. Se le sensazioni fossero state avvertite da tutti, le cose sarebbero andate diversamente. Invece nonostante l’aria ferma e l’atmosfera scura ai box, nessuno sospettava l’esito di quell’equazione. Ma alla partenza qualcosa va subito storto. Lehto resta fermo sulla griglia, la sua Benetton non si muove. Alle sue spalle, Pedro Lamy non lo vede in tempo. È un impatto violentissimo, detriti ovunque. Un pneumatico vola via e supera le reti. Finisce tra il pubblico. Nove feriti, tra cui un bambino. La safety car entra immediatamente e non era l’Aston Martin di oggi, ma una Opel Vectra. Lenta, troppo lenta. Le gomme delle monoposto si raffreddano, così i freni, in sei giri interminabili in cui la tensione inizia a tagliarsi a fette.
Nessuno sorpassa, nessuno osa, finché la gara non riparte, alle 14.17. Senna è davanti a tutti, davanti a Schumacher, davanti al destino. Affronta per l’ennesima volta la curva del Tamburello. Dagli On-Board ci pare una virata semplice, di quelle che in mano a Beco sembrano magia, anche se quella di Imola è una curva che piega ad altissima velocità, un muro controvento che può giocare il brutto di scherzo di spostare la traiettoria. Ma qualcos’altro va storto. Tutto si interrompe, la connessione radio, la telecamera, il respiro di Ayrton, perché la monoposto va dritta. In un secondo, forse meno, il muso della FW16 si schianta contro il cemento. Un volo secco senza frenata, il volante che non risponde, colpa dello stacco del piantone. Il terzo silenzio che cala.
I minuti che diventarono storia
14.18 e la bandiera rossa. Ma lo spettacolo è già finito. E nessuno applaude. L’elicottero atterra sulla pista. Il personale medico circonda la monoposto. Watkins inquadra il suo caso. Quel dottore amico del brasiliano al quale lui stesso aveva chiesto consiglio, se gli convenisse correre, perché lui di dubbi ne aveva eccome e nel mentre glielo chiedeva già si era dato la risposta: “Non posso smettere, non adesso. Devo continuare.” Ma ci aveva pensato il destino: Ayrton Senna non si muoveva più. La visiera scura, il casco reclinato. Nessuno ci crede, pur se davanti a loro, quel “non lui”, quel “non in questo modo”, sono più forti di qualsiasi bugia.
Quelli che seguirono furono minuti infiniti, la certezza prima ancora che fosse notizia. Sono le 14.55 quando Ayrton viene dichiarato clinicamente morto all’ospedale Maggiore di Bologna. Ma per volere di Ecclestone, la comunicazione ufficiale viene rimandata. Saranno soltanto le 18:40 quando il TG1 apre il notiziario con la voce rotta del giornalista: “È morto Ayrton Senna”, un nome che fa fermare l’Italia, il mondo dello sport e non, perché la tragedia di quella pagina da voltare il più in fretta possibile si era consumata col suo culmine. E Imola non sarebbe mai stata più la stessa.
A Imola non fu solo sport e Ratzenberger e Senna ne hanno mostrato la fragilità
Quel weekend del ’94 non fu solo una gara, ma una frattura. Anche perché il 1994 fu costellato di eventi pericolosissimi e nonostante non siano stati gli ultimi a lasciarci in pista – li seguì una ventina di anni dopo Jules Bianchi, spezzando finalmente (e si spera per sempre) la catena di non attenzione dedicata all’argomento– qualcuno stava aprendo gli occhi. Ayrton se n’è andato portando con sé un pezzo di poesia. Roland ci ha ricordato che anche i sogni fragili meritano rispetto. E ogni volta che si torna a Imola, non è nostalgia: è memoria attiva. Si corre in Formula 1 anche per merito loro ed è per questo che ricordarli serve non solo a guardare dietro, ma a guardare meglio avanti.

I numeri che non raccontano nulla, ma servono (anche al FantaF1)
Ayrton Senna da Silva, tre volte campione del mondo. 41 vittorie, 65 pole position, una carriera fatta di atti di fede in staccata, assurdità sul bagnato e sguardi oltre la paura, in un ipotetico 2025 sarebbe stato leggenda attiva. Un veterano alla Alonso, con la fame di Verstappen, la profondità di Hamilton, la classe di Leclerc e la precisione di Piastri. Oppure no, ma ci piace pensarlo lì in vetta, o ai margini a guidare un team e costruire talenti.
In FantaF1, un Senna moderno varrebbe probabilmente un capitale: leader indiscusso del team, bonus pole quasi assicurato, stratega della guida sul bagnato. 40 YAW a weekend? Se il mezzo lo sostiene. Da mettere capitano.
Roland Ratzenberger, invece, era l’uomo degli inizi. Aveva 33 anni, stava realizzando il suo sogno. Sacrifici, corse minori, sponsor trovati con fatica. Non aveva ancora nemmeno un punto. È sicuramente un’incognita. La sua fame gli avrebbe giustificato una quotazione alla Doohan, forse, alla Bearman. Forse varrebbe quanto Ocon? Nel nostro immaginario FantaF1, sarebbe stato il giocatore intelligente da ultimo slot: uno da tenere d’occhio, che magari non ti vince la gara, ma ti regala la sorpresa. Ma questa è solo un’idea…