Luigi Mazzola all’anagrafe, “l’Ingegnere” con la I maiuscola per tutti gli appassionati e gli addetti ai lavori del mondo della Formula 1 e non solo. Da subito ha le idee chiare sul suo posto nel mondo, la pista. Mazzola entra in Formula 1 e in Ferrari, nel 1988 dopo una prima esperienza in Lamborghini da neolaureato. La dedizione e l’impegno lo portano fino ai cancelli di Maranello, la cui soglia rappresenta passione, creatività, ricerca della performance. Tutti valori che uniscono un’intera nazione rendendola, ancora oggi unica nel Mondo, e che negli anni a seguire portano l’ingegnere Mazzola a dire “questa è la mia strada”, o almeno l’inizio. Perché non si sa mai dove ci può portare la vita.
La lunga carriera in F1
Il mito della Ferrari lo attira, il binomio con Villeneuve, un pilota così unico e speciale lo motiva ancora di più. Negli anni a Maranello Mazzola diventa un punto di riferimento, in un ruolo, quello di Race Engineer che ora ha meno potere e meno responsabilità rispetto agli anni in cui era lui a ricoprirlo. Adesso a ogni mansione corrisponde una figura specifica mentre prima si doveva avere una visione e una conoscenza completa non solo della macchina, ma anche di tutti coloro che ci lavoravano, tra piloti, meccanici, ingegneri. Nel corso della sua carriera Mazzola ha vinto otto campionati mondiali costruttori e sei campionati mondiali piloti di Formula 1, lavorando a stretto contatto con campioni del calibro di Prost, Schumacher, Raikkonen, Massa e Alesi. Nel 2009 l’addio alla Ferrari, per seguire la strada successiva della sua carriera, che ora lo porta ad insegnare leadership nell’ambito della managerialità, portando avanti i messaggi e gli insegnamenti che ha colto in questo strano e complesso mondo della F1.
Mazzola: tra Ferrari, Red Bull, direttiva e non solo
In occasione del Gran Premio di Suzuka, abbiamo avuto modo, e l’onore di intervistare l’Ingegnere Luigi Mazzola, toccando diversi temi. Dal suo percorso professionale alla prima vittoria della Ferrari in questa stagione a Singapore, e alla debacle di Red Bull, penalizzata – forse – dalla direttiva FIA, che potrebbero dare una svolta diversa all’ultima parte di stagione.
Ingegner Mazzola, vogliamo ripercorrere il suo percorso che l’ha portata all’ingresso in F1?
“Tutto nasce a seguito della laurea in ingegneria meccanica al Politecnico di Torino. Inizio da lì, per un paio di mesi, a lavorare per Lamborghini per poi esser chiamato dalla gestione sportiva della Ferrari in F1. Sono entrato a Maranello il 1° settembre del 1988: mi occupavo di ufficio calcoli, tecnico e disegni, ma la mia vera destinazione era da sempre la pista. Ho cominciato per questo da subito a occuparmi dei test. Avevo due colleghi superiori che erano ingegneri di Alboreto e Berger. Ho cominciato con loro. Successivamente al posto di Alboreto arrivò Mansell e iniziai a occuparmi dei test insieme a loro, per poi focalizzarmi da solo sul lavoro dedicato ai test driver, fino ad approdare in gara come ingegnere di Prost”.
“Feci con lui i campionati del 1990-1991 ma non ero d’accordo con la politica di sviluppo che stava prendendo piega in Ferrari e per questo mi licenziai. Peter Sauber seppe la notizia, mi chiamò e nella primavera del 1992 decisi di firmare per la Sauber. Realizzammo la macchina, in cui praticamente ero l’unico esponente di F1, e poi iniziammo il campionato nel 1993. In Sudafrica, nella prima gara, eravamo davanti alla Ferrari e il presidente Montezemolo mi chiamò chiedendomi di tornare”.
Il nuovo ritorno in Ferrari
“Ci ritornai alla fine del 1993 e da quel momento iniziò il nuovo corso. C’era Jean Todt e da lì sono tornato a fare l’ingegnere di pista, per poi prendere in mano la squadra test dal 1995 che diventò una task force Ferrari incredibile con tre strutture, tre gruppi di lavoro e tanto altro. Divenne un dipartimento enorme che ci permise di sviluppare e vedere l’evoluzione della macchina praticamente avendone tre in pista: una a Mugello, una a Fiorano e una a Barcellona. Da quel momento ho iniziato a occuparmi sempre di più dell’ambito performance e affidabilità, prima di salutare nel 2009. Decisi di uscire dal mondo della F1, abbandonando il mio lavoro per potermi dedicare al nuovo mestiere che svolgo tutt’oggi. Mi manca la F1 agonistica, ma anche quello che faccio oggi mi carica davvero tanto”.
Durante la sua carriera non ha mai nascosto che gli anni del Politecnico furono difficili. Per questo le chiedo, ma una volta che è arrivata in F1 un: “Me lo sono meritato” lo hai mai pensato?
“Me lo sono meritato solo per la volontà che avevo di entrare in quel mondo. Sono rimasto fulminato dal binomio Ferrari-Villeneuve, che per me è stato davvero incredibile: la Ferrari che ha un mito e un pilota esplosivo come Villeneuve. Se vuoi, posso dire sì, me lo sono meritato solo per la costanza di averci creduto. Poi, invece, dire di essermelo meritato per la competenza e per il lavoro lo lascio dire a qualcun altro”.
Il ruolo dell’ingegnere: “Quanti cambiamenti ha subito”
Rispetto al passato, quanto è cambiata la figura dell’ingegnere in F1?
“Quando ho iniziato io ero molto giovane. All’epoca per arrivare a fare l’ingegnere di gara dovevi avere alle spalle un bel po’ di gavetta, anche perché il ruolo era nettamente più importante all’epoca. In primis perché in pista durante un weekend c’erano massimo una trentina di persone. L’ingegnere di pista era un catalizzatore di tutte le attività intorno alla macchina, meccanici e tecnici compresi. Doveva per questo avere una visione, una conoscenza della macchina sotto ogni punto di vista: dal motore, al cambio, all’impianto idraulico, l’assetto, i freni, la gestione della benzina…e non solo. Aveva in mano tutto. Nessuno poteva decidere sulla macchina se non lui, che era tra l’altro l’unico punto di riferimento del pilota. Quindi, questo ‘personaggino’, come mi piace chiamarlo, aveva in mano tutte le attività che c’erano intorno alla macchina e doveva avere competenza, capacità e autorità per poter far girare tutto come un orologio”.
“Non c’era in quel periodo, come magari c’è oggi per le strategie, uno specifico stratega: era sempre l’ingegnere di pista. Per non parlare della tecnologia: la telemetria, per farti un esempio, non esisteva. Quando bisognava fare i rapporti serviva una stampata di tutti i giri con la frequenza di campionamento che avevi: ti veniva fuori un plico di 2 cm di spessore e dovevi individuare dov’era il rettilineo e dove la curva. Ora invece c’è molta più specializzazione. L’ingegnere di pista ha molta meno valenza, molto meno potere. Ci sono più persone e figure che lavorano avendo una specifica, per questo dico che il ruolo è completamente cambiato, quasi sminuito. All’epoca l’ingegnere di pista era il riferimento del pilota”.
Mazzola: “Prima l’ingegnere era la vera spalla destra del pilota”
“Ora il pilota, all’interno della catena, è l’elemento più debole dal punto di vista psicologico, perché è quello che deve fare il risultato, che potrebbe avere il compagno di squadra più veloce. È quello che ha tanta pressione e ha bisogno di sostegno e l’ingegnere di pista era quasi lo psicologo anche del pilota. Era la vera spalla: lo doveva motivare, spronare o cazziare; ma era importante anche per il pilota. Adesso, attorno al pilota hai il coach, il fisioterapista, il team principal…tante figure che rendono il tutto dispersivo. Credo che oggi un ingegnere di pista non conosca in maniera completa quello che c’è nella macchina, mentre qualche tempo fa sapevi tutto”.
L’importanza dell’aspetto psicologico
Durante la sua carriera si è soffermato molto anche sullo studio della mente umana. Com’è la testa di un pilota e quanto è difficile saperci entrare?
“La definizione, dal lato psicologo, o perlomeno chiamiamola così, dell’ingegnere di pista è questa: è l’effetto placebo del pilota, in modo tale che il pilota diventi placebo di sé stesso. Questo vuol dire che l’ingegnere di pista in base alle sue competenze, oltre a quelle legate alla macchina, deve possedere delle soft skills. La necessità è creare quei tre aspetti fondamentali per l’effetto placebo, ovvero: condizionare il pilota attraverso un significato tecnico che può dargli spiegazioni di quello che potrà succedere alla macchina nel momento in cui la si cambia, creando aspettative. Questo vuol dire ovviamente condizionare il suo pensiero. Questo permette al pilota di crederci e di spingere ancor di più. A quel punto, il pilota diventa placebo di sé stesso perché per lui questo sarà soddisfacente per migliorare la prestazione: va in macchina e andrà più forte, anche se l’ingegnere di pista non avrà cambiato niente, ma ha solo spinto il pilota ad andare più forte facendogli credere che la macchina sarà migliore”.
“Solo così il pilota inizierà a fidarsi di te”
“È questo l’atteggiamento che ho utilizzato tante volte: è ovvio che inizialmente il pilota si arrabbi perché crederà che lo stia prendendo in giro, ma si renderà anche lui di essere andato più forte. Solo così tu diventi carismatico nei suoi confronti: lui si fiderà di te e questo diventa un aspetto fondamentale. Sono temi, te lo dico chiaro, che nessuno nell’ambito della F1 ha mai sviluppato o studiato come si deve. Io me ne sono accorto e per questo ho scelto di approfondire quest’ambiente, fondamentale per gestire i meccanici, tecnici e saper far fronte sia ai miei superiori ma anche ai campioni. Credo che sia importantissimo e ho provato a insegnarlo a tutti i miei ingegneri, come Andrea Stella che oggi è team principal della McLaren”.
Gerarchie tra piloti: giusto o sbagliato?
Crede sia giusto che un team stabilisca delle gerarchie tra i piloti? E quanto, toccando il tema, può influire in senso positivo o negativo su di loro?
“Non si può dire da subito se sia giusto o meno. La ragione è semplice: la cosa migliore sarebbe che la gerarchia venisse dettata dalla pista, che venga naturale e non forzata. Diverso è il discorso se hai il pilota campione e quello meno campione: lì a quel punto la situazione è chiara e la gerarchia è già scritta. Nel momento in cui hai piloti di pari livello, vedi Leclerc e Sainz in questo momento, è meglio lasciare intatta la motivazione dei due piloti. Se dal primo istante dici a uno di essere il secondo, farà di tutto per battere il primo e se ne fregherà della squadra. Meglio lasciar andare, poi sarà la stagione a delineare la necessità o meno di stabilirla se uno prevale in maniera abbastanza sostanziale ed evidente”.
Il GP di Singapore: la vittoria della Ferrari
Venendo proprio alla Ferrari: cosa avrà dato alla squadra la vittoria di Singapore?
“Vincere è un’iniezione di fiducia. È un avvicinamento delle persone, un sentirsi squadra e una positività enorme. La vittoria ha dato davvero tanto”.
Ferrari ha vinto a Singapore, ma Red Bull ha deluso a seguito della direttiva emanata dalla FIA: crede sia stata penalizzata?
“Ho seguito tutto il weekend di Singapore. Ci sono diversi aspetti che mi hanno sorpreso: in primis la Red Bull, che non è riuscita a performare e il passo indietro è abbastanza preoccupante. Credo che tale fase possa esser legata a diversi aspetti: dicono dall’interno, o meglio, gli addetti ai lavori, che la direttiva introdotta sposti di un decimo e non di più i valori dei team, ma in Red Bull sono stati nettamente più lenti rispetto al solito”.
Red Bull penalizzata dalla direttiva? “Può aver influito, ma…”
“Questo è davvero strano perché quando inizi a ragionare coi termini devi andare a vedere quali sono gli elementi più importanti in una macchina di F1: il primo sono le gomme e l’altra è l’aerodinamica. Durante la stagione non ho mai visto Red Bull in difficoltà con le gomme e pensare che la problematica sia nata a Singapore mi è molto strano. Resta, dunque, l’aerodinamica che è dominata da due aspetti: l’efficienza, ovvero il carico, e la guidabilità dell’aerodinamica. L’efficienza e il carico non credo che l’abbiano perso o potrebbe essere in quel decimo della direttiva, ma poi viene fuori la guidabilità perché nel momento in cui si va a intaccare, proprio tramite le direttive, quelle che sono le flessibilità degli elementi aerodinamici è chiaro che intoppi la guidabilità”.
“Un’ala flessibile, infatti, ti permette di giocare in maniera tale da avere variabilità di bilancio aerodinamico a seconda della velocità della macchina, del vento e delle curve lente o veloci. La guidabilità aerodinamica è presente soprattutto nei transitori: la macchina quando frena in avanti si abbassa mentre il posteriore si alza; quando sei a metà curva rolla. Tutti questi transitori comportano una variabilità dei parametri, come le altezze, nell’ambito della vettura che inficiano l’aerodinamica che non è costante da parte del pilota, ma è imprevedibile perché può passare da sotto a sopra in maniera repentina”.
“Red Bull penalizzata? Impossibile credere che la direttiva non abbia contribuito”
“In Red Bull mi è sembrato questo il grande problema, poi: hanno sbagliato l’assetto? Hanno scelto un fondo con delle modifiche che avevano visto dare più punti in galleria del vento? Questo non lo so. Faccio fatica a pensare che la Red Bull sia stata penalizzata dalla direttiva, ma posso pensare che senza dubbio abbia dato il suo contributo in un weekend per loro da dimenticare”.
“Ti faccio un esempio, venendo alla vittoria Ferrari: a Zandvoort non hanno fatto un’ottima prestazione, in quanto hanno scelto un’ala da medio alto carico, che ha sicuramente inciso nella prestazione. Si pensava che quella scelta fosse giusta e che quella macchina potesse rispondere meglio con quel livello di carico. Sono andati a Singapore con l’ala più carica, con la stessa situazione aerodinamica, in quanto non hanno portato un nuovo fondo. Hanno sbagliato, evidentemente, a Zandvoort e hanno messo quello che doveva esser scelto per Singapore. Il cambio del layout l’ha reso ancora un po’ più amichevole per la Ferrari che è riuscita a dire la sua e a portare a casa la vittoria”.
Non solo la direttiva Red Bull: “Singapore è stata una non gara”
“Si è parlato molto sul fatto che Red Bull sia stata penalizzata dalla direttiva, ma c’è una cosa mi ha lasciato ancora più perplesso: la gara. Non l’ho capita. Se si vanno a vedere le classifiche durante la gara, tra il primo e il quindicesimo erano tutti a un secondo, in quanto i primi andavano molto piano. Sainz, infatti, ha impostato la sua gara sulla gestione delle gomme, soprattutto dopo la safety car. La cosa che mi ha lasciato perplesso è che non ho mai visto un tentativo di sorpasso. Anche se i piloti avevano il DRS non hanno mai cercato di superare l’avversario. Capisco che Russell, nella prima parte di gara, sperava in un degrado Ferrari nel finale. A seguito del pit nel finale delle due Mercedes, Norris si è trovato in seconda posizione e, con Sainz che gli ha lasciato il DRS, non ha mai provato a superarlo. Almeno un tentativo, almeno a provarci. Dopodiché Sainz è diventato un mix tra Villeneuve, Lauda e Prost. Ha fatto un garone, specifichiamo, è stato eccezionale, dico solo che se ci hai dietro il buon Verstappen o Hamilton, farà di tutto per provare il sorpasso fino alla fine”.
La nuova vita di Luigi Mazzola
Ora lei svolge il ruolo di performance coach, giusto?
“Uno dei ruoli che svolgo è quello di testimonial nelle aziende. Porto i messaggi che ho imparato e decodificato in quest’ambiente particolarmente competitivo della F1, in modo tale che loro possano riprodurli. Testimonial vuol dire essere presente nelle convention e nei momenti in cui si ritrovano e ne faccio circa due o tre a settimana. Mi diverto davvero tanto a formare le persone e le aziende: insegno leadership nell’ambito della managerialità e lo insegno anche all’università. Le aziende mi hanno dato anche la possibilità di conoscere il mondo commerciale e chissà che non possa insegnare anche come essere efficaci nell’ambito della vendita”.
In vista di Suzuka: Red Bull sarà penalizzata dalla direttiva?
Per chiudere la nostra intervista: ingegner Mazzola, venendo al GP del Giappone: quali sono i cinque piloti che vede in forma?
“Ti direi occhio a Hamilton, Sainz, Norris, Russell e attenzione anche alla Red Bull di Verstappen che, indipendentemente dalla direttiva, credo tornerà molto prepotente e difficilmente credo sarà penalizzata”.