Si può essere umani in Formula 1?
La risposta sembra scontata, ma la vicenda di Isack Hadjar ci impone di riflettere. Melbourne doveva essere l’inizio di un sogno, invece è stato un incubo. Un errore nel giro di formazione, il ritiro prima ancora di prendere il via. Un momento devastante per qualsiasi pilota, figurarsi per un esordiente. E il rookie ha pianto. Ma siamo in Formula 1, dove la freddezza è legge, il cinismo un requisito e le lacrime di Hadjar “imbarazzanti”, secondo Helmut Marko. Una reazione dura quella del consulente di Red Bull Racing, che ci riporta a un interrogativo fondamentale: c’è spazio per l’emotività in uno sport che spreme i suoi talenti fino all’ultima goccia?
Ma quali sono le emozioni che contano?
Sono emblematiche le immagini del padre di Lewis Hamilton che sfida chiunque e si antepone a qualsiasi quesito, correndo a confortare il giovane Isack che forse, parlandoci chiaro, aveva bisogno soltanto di quello. Lui che ha costruito un campione del mondo col supporto e la fiducia e sa bene quanto la fragilità, spesso bypassata, sia in realtà un passaggio obbligato. La storia della categoria regina ci insegna proprio questo: la paura, la frustrazione, la pressione non si cancellano con un ordine di scuderia.
Ed è vero che la freddezza e l’essere metodici lo rendono più complicato rispetto ad altri sport. Eppure tra le tante caratteristiche concesse come l’egoismo, la concentrazione e la lucidità, non vi è sicuramente la mortificazione. I piloti sono atleti d’élite, ma anche esseri umani. Pretendere che restino impassibili di fronte al fallimento è irrealistico e ingiusto. L’errore è parte del percorso, così come la delusione. E Hadjar ha altre 23 gare davanti a sé. Il suo esordio non lo definisce, il suo futuro non si gioca tutto su una curva bagnata. Ma il peso delle parole di Marko e di chi lo ha deriso potrebbe condizionarlo più di un errore in pista.

Il peso delle aspettative e l’esigenza di dimostrare
Ed è qui che sente di intervenire Hamilton Senior sul suo intervento, già bazzicante nei box.“Non l’ho fatto solo per lui, ma anche per i suoi genitori, per tutto quello che hanno fatto per farlo arrivare qui,” ha dichiarato. “Dovevo dirgli che doveva tenere la testa alta, perché è un pilota fenomenale. Mi sono sentito malissimo per lui.” Ha poi aggiunto quanto sia importante non dimenticare che in fondo è di ragazzi che si tratta e che Marko farebbe bene a lasciare la Formula 1 qualora continuasse a pensarla in questo modo, soprattutto su un talento come Hadjar.
Essere un rookie significa convivere con il dubbio di non essere all’altezza, soprattutto nel team junior di Red Bull, è vero, eppure l’errore tecnico, ma prima di tutto umano, e forse il troppo entusiasmo e la voglia di dimostrare, potrebbero essere stati lo sgambetto di cui si ignora l’esistenza finché non vi si presenta l’attimo prima. Non vanno poi dimenticate le condizioni della pista, difficili persino per veterani come Sainz o Alonso. Immaginiamo come il peso dello sbaglio sia stato più forte dell’impatto della sua vettura.
Il futuro di Hadjar e la lezione per tutti, soprattutto per Marko
È che in Formula 1 la gestione dell’emotività è incoerente. Red Bull difende Verstappen quando è aggressivo e polemico, ma quando l’emozione si manifesta come fragilità, il supporto viene meno. Vettel veniva criticato per la sua emotività nei team radio, Leclerc fu deriso per le sue lacrime dopo il ritiro a Monaco nel 2021. La vulnerabilità è vista come debolezza in un ambiente che premia solo la forza mentale. Ma la frustrazione è un’emozione importante quanto la rabbia.
Allora perché le lacrime di Hadjar dovrebbero essere un problema? La FIA e i team sembrano aver dimenticato che l’emozione è parte dello sport. Ma allora, cosa vogliamo davvero? Un mondo di automi, o un motorsport fatto di uomini? Hadjar si rialzerà, perché ha talento e determinazione, ma forse Marko in questo caso deve chiedersi se vuole che la Formula 1 sia un ambiente dove la vulnerabilità sia uno stigma, o se può accettare che, dietro ai caschi, ci sono persone prima ancora che piloti. Forse la domanda giusta non è se ci sia posto per l’umanità in questo, ma perché continuiamo a fingere che non dovrebbe esserci.