Qualsiasi incidente, o almeno quelli più gravi della storia di questo sport, ha fatto scuola. Inizialmente, la vita era uno dei prezzi da pagare per correre con questi bolidi. Il più alto ma comunque accettabile. Il pericolo veniva imputato al semplice fato. Nulla poteva evitare certe sorti – tacitamente accettate – se non il proprio destino. Eroi senza armi, e senza corazza, se non quella del coraggio. Con il tempo e tante tragedie sulle spalle, l’incoscienza ha lasciato spazio alla coscienza, alla realizzazione che la sicurezza non snaturasse le corse e che il rischio per quanto difficile da azzerare si sarebbe potuto ridurre. Nonostante il lieto fine l’incidente di Zhou a Silverstone ha dimostrato ancora una volta, che l’unico passo per spingere il progresso a compiere un ulteriore step nella sicurezza, è quello di sfiorare la tragedia.
È andata bene, due volte grazie all’Halo
Siamo abituati a dare troppo per scontato che il motorsport non sia uno sport estremamente pericoloso. Che si sia già fatto tutto per renderlo uno sport sicuro. Uno dei simboli di questo progresso, che adesso ha ridotto drasticamente le percentuali di rischio è stato protagonista assoluto a Silverstone. Ampiamente criticato dagli stessi piloti e da nomi di tutto prestigio, come quello di Niki Lauda, l’Halo, con i suoi 9 chilogrammi di peso, questo weekend non ha salvato solo una vita, ma ben due. Una brutta appendice, giudicata inutile e antiestetica da molti, ma che in realtà può reggere il peso di dieci Fiat Panda e resistere all’impatto di una ruota di una F1 sparata a 225 km/h.
L’incidente in F2
Domenica qualcuno ha veramente messo una mano dall’alto e protetto due vite. Il primo incidente arriva la mattina, con la Feature Race di F2. Dennis Hauger, decollato sopra un dissuasore, dopo un precedente contatto con Roy Nissany, ha sorvolato e centrato in pieno la vettura del pilota israeliano, salvato dall’Halo. A primo impatto questo episodio ci riporta con la mente a Monza 2021. Proprio nel tempio della velocità, la RB16B di Max Verstappen, sempre dopo aver impattato con un dissuasore si è ritrovata sopra la macchina di Lewis Hamilton. Una ghigliottina di quasi 800 chilogrammi che arriva a tutta velocità in una frazione di secondo. Di quell’incidente, Lewis ha portato anche i segni sul proprio casco, baciato dalle ruote dell’olandese. Ma questi non sono gli unici casi in cui abbiamo rischiato una vera e propria decapitazione.
Leclerc, Grosjean, Hamilton, Nissany, Zhou. Se non fosse stato per l’Halo li avremmo pianti uno dopo l’altro.
200 metri a testa in giù
La monoposto di Zhou, dopo una folle corsa a testa in giù di circa 200 metri si era arrestata tra le barriere fatte di copertoni e la ringhiera che protegge il pubblico. L’Halo l’ha protetto dalla rottura del roll bar per tutta la corsa, dall’arrivo sulla ghiaia e dall’impatto finale. La corsa istintiva e disperata di Russell, presidente della GPDA, l’unione dei piloti di Formula 1 che si occupa proprio della sicurezza, che si è diretto verso il luogo dell’impatto è stata forse la cosa più bella e al contempo straziante che abbiamo visto in quei frangenti in cui speravamo di avere solo buone notizie. Ci ha ricordato che per quanto folle sia questo sport tutti dovrebbero fare il massimo per renderlo sicuro, e proteggersi a vicenda.
Ancora troppe domande
Silverstone ci ha lasciato una lezione ma anche tante domande. Con che criterio un elemento introdotto per la sicurezza era stato criticato per la sua estetica? Perché un altro elemento creato per proteggere il pilota da incidenti in cui l’auto si ribalta – ovvero il roll bar – si è disintegrato come un grissino, lasciando sull’asfalto a Silverstone una striscia di vernice rossa da far accapponare la pelle? Perché i piloti che avevano avvisato la Federazione della presenza di alcuni manifestanti a bordo pista non sono stati fatti rientrare ai box nell’attesa dell’arresto di questi pazzi?
Forse la risposta che accomuna tutte queste domande è che per quanta strada è stata fatta ce ne sia altrettanta da fare. Che andrebbero fatti controlli più severi dei crash test. Che cercare di raggiungere la massima sicurezza dovrebbe essere non solo un obbligo morale ma un istinto naturale, così come quello che ha tirato fuori Russell. Perché “poteva andare peggio” è una frase di circostanza che sa tanto di rassegnazione. Una di quelle frasi che non si discosta molto da quelle del passato, ma che deve farci ragionare sulla strada che la Formula 1 dovrebbe prendere per compiere un altro progresso.